Levodopa: sindrome da trattamento cronico
Trattamento con levodopa
Durante i primi anni di malattia il controllo farmacologico con levodopa è pressoché totale e di conseguenza i sintomi della malattia sono scarsamente evidenziabili; questo periodo viene anche definito “luna di miele terapeutica”. Dopo un determinato numero di anni, molto variabile nei vari pazienti e quindi difficilmente prevedibile nel singolo caso, il controllo si fa più precario e si impongono vari aggiustamenti terapeutici.
Nella malattia di Parkinson dopo un periodo di anni tra 5-10 anni, anche più, dall’introduzione in terapia della levodopa, si assiste ad una variazione delle caratteristiche della malattia. Inizialmente si osserva una riduzione in termini di tempo dell’efficacia del farmaco caratterizzata da una ripresa dei sintomi parkinsoniani mano a mano che ci si allontana dall’orario di assunzione del farmaco. Questo fenomeno viene definito con termine anglosassone “wearing-off” e si riferisce allo svanire nel tempo dell’efficacia del farmaco. Successivamente la risposta al farmaco si fa ancora più variabile e si instaurano delle pulsazioni motorie più decise. Si evidenziano così periodi di scarsa risposta al farmaco, alternate a periodi di buona efficacia, se paragonando il farmaco a un interruttore che si “spegne” e si “accende” vengono definiti periodi “off” e “on” oppure “blocco” e “sblocco”. Inoltre i periodi “on” si possono ulteriormente complicare per la presenza di movimenti involontari che perlopiù mimano una danza (discinesie) oppure possono anche essere lenti (distonie). Possono coinvolgere il capo, il tronco per cui abbastanza frequentemente viene riferito un “dondolio”, e gli arti. Generalmente si manifestano quando l’attività del farmaco è al suo apice e vengono definiti da picco-dose, ma possono esserci anche nel periodo in cui il farmaco sta finendo il suo effetto( fine dose) o anche all’inizio dell’effetto del farmaco (difasiche). Risulta di conseguenza evidente l’importanza di utilizzare le varie terapie a disposizione con grande competenza per allontanare il più possibile nel tempo queste complicanzae.
Dopaminoagonisti
Teorie più recenti prevedono un utilizzo precoce dei dopaminoagonisti e un’ introduzione più tardiva della levodopa. Vari presupposti teorici sono alla base di questo comportamento a cominciare dal fatto che queste molecole non hanno bisogno di trasformazione da parte dei neuroni della sostanza nera e quindi dovrebbero mantenersi efficaci anche in fasi più avanzate della malattia quando le cellule nigrali sono molto ridotte. In secondo luogo mostrano una vita molto più lunga rispetto alla levodopa e infine non danno luogo alla produzione di radicali liberi mostrando anzi in alcuni casi proprietà antiossidanti. Pazienti trattati dall’inizio con solo un dopaminoagonista mostrano una ridotta incidenza di discinesie e fluttuazioni motorie. Gli effetti antiparkinsoniani dei dopaminoagonisti tuttavia sono di solito minori rispetto alla levodopa e dopo 2-4 anni la loro efficacia si riduce. Quando diventa necessario un trattamento più incisivo si aggiungono basse dosi di levodopa. Una strategia alternativa è di combinare basse dosi di levodopa con un dopaminoagonista fin dall’inizio, alcuni pensano che questa seconda strategia dia i migliori risultati. Inoltre alcuni ricercatori ritengono che i dopaminoagonisti possono svolgere un ruolo di neuroprotezione, l’ipotesi si basa sul fatto che la degradazione della levodopa e della dopamina nello striato generi radicali liberi, composti che risultano altamente tossici per i neuroni, anche se non è ancora chiaro se le dosi di levodopa utilizzati in terapia siano sufficienti per determinarono un aumento sensibile.
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